La mia invenzione è destinata a non avere alcun successo commerciale.

Louis Lumière

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Uno spazio su cui leggere le recensioni di nuove e vecchie pellicole uscite in sala.
Blog a cura di Mimmo Fuggetti

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venerdì 28 ottobre 2011

MELANCHOLIA: La fine del mondo secondo Lars Von Trier.

Si è tanto parlato dell'ultima opera del regista danese durante il festival di Cannes, dove Kirsten Dunst è riuscita a portare a casa la palma d'oro per il ruolo di miglior attrice. Il film è strutturato in due parti completamente discordanti tra loro, precedute da un'intro onirica e a tratti profetica che anticipa le sorti dei protagonisti. Non ci è nuova la stilizzazione teatrale di Lars Von Trier che dopo il film Dogville, riprende in parte gli schemi teatrali intitolando i due atti del film con i nomi delle due sorelle protagoniste, Justine e Claire. La figura di Justine (interpretata dalla Dunst) sembra assumere le sembianze di Dr. Jekyll e Mr. Hyde (Justine infatti, dal momento in cui si accorge della presenza del pianeta, cambia completamente personalità facendo uscire fuori il suo "io interiore", quasi come se il suo segno zodiacale fosse strettamente legato al pianeta Melancholia). Claire, a differenza della sorella "lunatica", rappresenta la figura più realistica dell'opera e che consente all'autore di ristabilire un certo ordine filmico. Claire sembra essere l'unica ad accorgersi della minaccia incombente sul nostro pianeta, preoccupandosi soprattutto delle sorti del figlio Leo. Nel primo atto Lars Von Trier ci mostra le nozze di Justine dove la protagonista, proprio durante quello che dovrebbe essere il giorno più bello della sua vita, decide di distaccarsi da quelle che sono considerate le istituzioni sociali per eccellenza (lavoro, matrimonio, ecc), dando un calcio alla sua vita (seguendo le idee della figura materna) e incarnando tutti gli elementi presenti nella filmografia dell'autore. Lars Von Trier, infatti, si è sempre contraddistinto per la sua impronta antireligiosa, antimoralista e più che realista se si parla dello scontro tra scienza e fede, ottimismo e pessimismo (impersonificati rispettivamente dal cognato di Justine e da sua sorella). Egli, come abbiamo modo di vedere nelle sue opere, è un autore che predilige il male e questa sua caratteristica, viene evidenziata con una frase del film, quando Justine invita sua sorella a riflettere su tutta la cattiveria che è presente sul pianeta terra. Forse è per questo che la protagonista decide di rimanere immobile durante l'imminente catastrofe e si sbilancia con un gesto d'affetto (la presa di mano finale) solo al termine della pellicola. Il bilancio finale del film è a metà tra il capolavoro e una vera e propria opera d'arte: tante sono le immagini che sembrano essere dei quadri appesi in sala, ma ciò che non convince (nonostante la pellicola possa risultare più che riuscita) è proprio l'atteggiamento di Justine che, ad un certo punto, si snuda senza un significato particolare sotto il pianeta Melancholia, quasi come se il regista stesse calcando la mano per mostrare al pubblico i suoi "dipinti" a volte evocativi, altre troppo sperimentali. La sua figura è talvolta incomprensibile e, proprio come accade per il pianeta, servirebbe un telescopio per studiarla da vicino. Il film, quindi, appare come una vera e propria opera d'arte non facile da decifrare, ma ricco di contenuti di alta qualità: struggente, sperimentale, mortale.

martedì 25 ottobre 2011

THE WRESTLER: Sogno o realtà?

Randy "The ram" è un wrestler di fama mondiale. A causa di un infarto sarà costretto a rimodellare il suo stile di vita e cercherà di mettere ordine ai suoi problemi, soprattutto con la figlia, la quale si mostra scettica nei confronti del padre. Ammirevole da parte di Aronofsky il fatto di affrontare con un approccio critico lo "sport" del wrestling, sicuramente differenziabile da un film come "Pronti alla rissa". Il wrestling è sempre stato uno sport molto apprezzato dai giovani. Ci si chiedeva se si trattasse di realtà o finzione. In questo film è Aronofsky a mettere luce alla questione, col taglietto sulla fronte inflittosi da Rourke dopo pochi minuti. L'incipit del film è quello di un uomo ripreso sempre di spalle. Si, perché c'è poco di interessante da vedere in lui se non si trova sul ring. E' li che mette in scena la sua esibizione/distruzione, quella del suo corpo (cosi come avviene per la Tomei), è li che si sente veramente a casa. Degna di nota la citazione al film "La bella e la Bestia" durante il ballo tra padre e figlia. Il film non è sul wrestling, non è sul passato di un uomo che si ritrova ad affettare salumi dopo una luminosa carriera da grande professionista, ma è un film che riguarda la messa in mostra, e distruzione, del corpo umano. Una forte critica alla società (americana, ma non solo), che conduce gli uomini a massacrarsi per poter condurre una vita migliore, e lo fa inducendo questi senza esserne consapevoli. Questa "ballata di Mickey Rourke" riporta sul podio uno degli attori più maledetti della storia del cinema, recitando con naturalezza e riportando tutto se stesso in quest'opera che definirei post-neorealistica!

RUSHMORE: Crescere che fatica!

Max, una sorta di alterego di Anderson, è un quindicenne dall'inventiva sorprendente che ama la Rushmore Academy e "trascurerà" questo amore solo in sostituzione di quello per la maestra miss Cross. Rushmore Academy: è qui che vive Max, nel senso strettamente letterario, la sua entusiasmante vita. Una vita che, in quanto sorprendente, non può tenere per sé. Apparentemente secchione, il protagonista si rivelerà un'irresponsabile con scarsi profitti accademici. Max diviene ottimo amico di Herman Blume (Bill Murray), il quale ha due figli che non "rientrano nei suoi gusti", ma l'insoddisfazione peggiore viene dal suo matrimonio fallimentare. Blume si prende un'infatuazione amorosa per miss Cross, rompendo quell'equilibrio che si era formato tra lui, Max e la contesa maestra. Si vede a prima vista che Jason Schwartzman non ha quindici anni, ma la scelta di farlo rientrare nei panni di un ragazzino irresponsabile racchiude il leitmotiv del film. Siamo sempre cosi pervasi dalla voglia di crescere, che non ci accorgiamo dei comportamenti adolescenziali degli adulti attorno a noi. L'opera di Anderson mette in rilievo questo aspetto umano che raramente viene trattato dal mezzo cinematografico. Efficace la metafora (quella dell'ultima recita) della guerra: una causa completamente sbagliata che non condurrà a nessun risultato positivo. Stesso dicasi della "guerra" intrapresa da Max e il suo miglior nemico Herman per accaparrarsi l'amore della maestrina miss Cross. Sarà lei la bussola che guiderà i due irresponsabili verso la "retta via", verso un'equilibrio relazionale del trio. Buono il risultato di questo straordinario ragista che continua a regalarci queste commedie dalla drammaticità nascosta. Non ci resta che dire: caro Anderson, se continuerai su questa strada sarai tu la nostra Rushmore.

VINCERE: Un film tra passato, presente e futuro.

L'aspetto referenziale dell'ultimo film di Bellocchio rievoca parte della vita privata di Benito Mussolini e soprattutto di Ida Dalser, moglie segreta del dittatore fascista, il quale le "darà" anche un figlio. Avevamo lasciato Filippo Timi a lasciarsi comandare da Dio, ma nell'incpit di questo film sarà proprio l'attore (che interpreta Benito Mussolini) a sfidare la sua divinità, dandogli cinque minuti di tempo per fulminarlo e garantire tutti della sua esistenza. Chissà come sarebbero andate le cose se quel fulmine fosse davvero sceso dal cielo, sicuramente non avremmo avuto questo ottimo lavoro cinematografico di Bellocchio. Ed è proprio il cinema ad entrare in gioco durante il lungometraggio: ce ne accorgiamo vedendo il Monello di Chaplin, o ancora, tutte le riprese di repertorio che Bellocchio ha ricercato nell'Istituto Luce. Avvincente, con uno stile documentario, buono anche il montaggio con le didascalie che sembrerebbero voler balzare fuori dallo schermo per entrare dritte nella testa dello spettatore; le vicende di Ida Dalser vengono narrate dal regista per quelli che sono i fatti, lasciando una impronta soggettiva attraverso la sceneggiatura: è il caso dello psichiatra quando dice a Ida che questo non è il momento di fare i ribelli, adesso è l'ora di recitare, di fare gli attori. Quello psichiatra in realtà non sta parlando solo con la moglie segreta del Duce, egli si rivolge all'Italia impersonificata dalla Mezzogiorno. E' lei che viene usata, si presenta nuda e bella com'è, senza veli, senza nulla da nascondere, ma verrà sedotta e abbandonata. La storia ci insegna come il nostro paese abbia dovuto affrontare delle illusioni, delusioni enormi, maltrattamenti e la nuova generazione (che nel film viene rappresentata attraverso il figlio segreto di Benito Mussolini), è costretta a vivere nell'incertezza. Non si sà quale sarà il nostro futuro, ma Bellocchio ci suggerisce, attraverso il finale, che la strada da percorrere è lunga e pericolosa e non dipenderà solo ed esclusivamente da noi, ma ci saranno persone disposte a metterci i bastoni tra le ruote. Allora qual'è la chiave per "vincere"? Forse il cinema? Se questo è il tempo di recitare, come sottolinea l'autore, probabilmente è perche attraverso il mezzo cinematografico potremmo riuscire a comunicare il nostro pensiero e gridare aiuto al mondo intero, proprio come avviene per la Dalser rinchiusa in manicomio. Da sottolineare le ottime inquadrature scelte da Bellocchio, una in particolare: la soggettiva della Mezzogiorno reduce da un maltrattamento fisico e i medici che cercano di aprirle gli occhi, quasi come se quegli occhi che sono intenzionati a spalancare fossero i nostri. Il regista ci urla ad alta voce: Italia apri gli occhi e vedrete che quel motto lo faremo nostro, "vincere...e vinceremo"!

IL PETROLIERE: Il sangue della terra: avere o non avere!

Si comincia dal basso: riprese scure, affaticamento, ferite e se l'inizio del film ci propone subito delle difficoltà evidentemente ci sta dicendo che qualcosa continuerà ad andare storto. E' questo l'incipit che lancia "Il petroliere" impersonificato da Daniel Day Lewis (vincitore del premio oscar 2007 come miglior attore protagonista). Non è un film che mostra l'ascesa al potere di un uomo che finirà poi con l'autodistruzione (come abbiamo già visto innumerevoli volte nella storia del cinema, vedi Quarto potere, Scarface), piuttosto esso ci presenta la sfida più grande che possa esistere: quella col "proprio" Dio. Il nostro petroliere viene mostrato come un uomo capace di rinnegare tutto e tutti, salvo se stesso. Daniel Palinview (Daniel Day Lewis) porta con se suo "figlio" che per gran parte del film sarà il suo piccolo socio, l'unica persona che apparentemente sembra sopportarlo. La sfida del nostro petroliere comincia quando a fare le veci del Signore è un ragazzo (definito nel corso del film come il profeta) che si presenta da lui con una proposta: quella di comprare una terra per poi ricavarne del petrolio che potrebbe far arricchire entrambi. In questo limbo californiano pieno di anime perse che scacciano il diavolo con le loro mani fuori dalla loro chiesa, Daniel comincia la trivellazione rifiutando la proposta della benedizione di Dio da parte del giovane profeta, secondo il quale tutti i guai accaduti durante la lavorazione (morte di un giovane operaio, incendio) risalgono a questo episodio. Il protagonista a tratti sembra ricordare la figura di Mazzarò troppo legato alla sua roba distaccandosi dai valori e dalle persone che conterebbero di più per l'"uomo comune". Epica la scena del battesimo dove Daniel Day Lewis mostra l'impersonificazione del personaggio alla perfezione, rinnegando se stesso solo per i suoi secondi fini. Paul Thomas Anderson ci regala un capolavoro che eguaglia il suo Magnolia, donandoci anche frasi cult come "io guardo le persone e non ci trovo niente di attraente, io vedo il peggio delle persone", forse proprio questa frase racchiude ciò che l'autore ha provato leggendo il romanzo dal quale è tratto il film riuscendo a farne di questo pensiero un opera che tratta la proporzione oro/sangue con estrema durezza e serietà. Qui non c'è Shakespeare, nessun "essere o non essere", qui piuttosto si tratta di "avere o non avere" e per quanto mi riguarda: Anderson, noi ABBIAMO bisogno del tuo cinema!


THE SOCIAL NETWORK: MI PIACE!

Cominciamo: un ragazzo e una ragazza, seduti in un pub, due birre, tanti dialoghi che catturano l'attenzione dello spettatore nonostante l'elevato tempo di conversazione. E' questo l'inizio di "The Social Network" che induce a chiederci se si tratta di amicizia o qualcosa di più tra i due personaggi. Il ragazzo è colui che possiamo identificare come una delle figure più importanti dell'ultimo decennio: Mark Zuckerberg (inventore di Facebook). Avevamo lasciato Fincher col suo Benjamin Button che maturava divenendo sempre più piccolo, qui il protagonista col passare del tempo sembra maturare sempre meno lasciandosi trasportare dagli eventi e non considerando altri aspetti importanti della vita (vedi, la sua amicizia con il co-fondatore Edoardo). In questo viaggio di controversie illegali, il giovane Mark incontrerà persone pronte ad appoggiare ogni sua iniziativa pur di ricavarne profitti economici. Questo lo condurrà alla fama e alla ricchezza, ciò nonostante il protagonista non si sentirà mai del tutto soddisfatto della sua vita cercando più volte di "chiedere amicizia" alla persona che gli sta più a cuore e che lui stesso ha allontanato. Un film decisamente riuscito questo di Fincher, che raccoglie: una fantastica colonna sonora (che sembra a tratti far alzare gli spettatori dalle sedie e cominciare a ballare a ritmo di musica), un cast azzardato ma decisamente convincente, ma soprattutto ottima la scelta del soggetto. Una storia assolutamente attuale che non solo informa gli spettatori su quanto accaduto al protagonista e su come nasce il fenomeno mondiale di Facebook, ma dobbiamo aggiungere che a questi elementi si affianca anche l'impegno di Fincher a dover affrontare qualcosa di completamente innovativo. Infatti, viviamo in un'era dove ormai, al cinema, troviamo citazioni e rifacimenti, per questo motivo dobbiamo rendere merito a questo ottimo regista che non si lascia trasportare dalla massa ed è riuscito in questo caso a sfornare un capolavoro originale e senza precedenti. "Non si può andare in giro con un cartello mostrando il proprio stato sentimentale". L'idea di Mark di inserire tutte le motivazioni per cui la gente si iscrive in rete è a dir poco geniale. Ed è proprio il genio del protagonista che si collega al nostro autore: storie attuali, che tutti noi vogliamo conoscere e vivere in prima persona. "A cosa stai pensando Fincher?" forse a portare al cinema ciò che Zuckerberg ha portato sul web? Infatti è proprio questo che fa di "The Social Network" un capolavoro: convergere il cinema al web riportando ancora una volta sul grande schermo quella linea sottile tra finzione (realtà virtuale) e realtà, proprio come sta accadendo a tantissima gente che ormai "vive" sul web. A Fincher: "mi piace" questo elemento.

BLACK SWAN - Aronofsky: alla ricerca della perfezione.

La conoscete tutti la storia: il cigno bianco che perde il suo amore e si abbandona alla morte considerandola l'unica soluzione per ottenere la sua libertà. Questo è il mondo in cui entriamo sin dall'inizio della visione di "Black Swan", con Cassel che spiega alle sue ballerine ciò che andranno a rappresentare. "To be continued": possiamo interpretare la fine di "The Wrestler in questo modo. Infatti è proprio cosi che comincia "Black Swan", riaccendendo quelle luci che si sono spente nel finale del precedente film di Aronofsky. Questa volta sul "ring" c' è Nina (Natalie Portman), alle prese con il casting per un ruolo da protagonista nella rappresentazione de "Il lago dei cigni". Il coreografo Cassel decide di rivoluzionare lo show scegliendo una sola ballerina che possa sdoppiare la propria personalità raffigurando il bene e il male, ovvero il cigno bianco e quello nero. Ma la nostra Nina incarna alla perfezione solo la figura angelica, ciò nonostante le verrà assegnata la parte e da qui comincerà il viaggio verso lo smascheramento del suo lato oscuro. Nina vive con sua madre ed è lei ad aprirci gli occhi sul perché la protagonista indossa sempre un coprispalle, che le serve per coprire delle ferite che lei stessa si infligge. Ancora "il corpo", quindi, chiamato in causa da Aronofsky. Un altro tentativo da parte del regista che cerca in questo caso di completare (questa volta con un altra ottica) ciò che aveva iniziato con "The Wrestler". Egli sceglie infatti il parallelismo trovando diverse similitudini tra la vita di Nina e la storia che lei stessa andrà a rappresentare. La ragazza sembra ossessionata dalla perfezione, trova difficoltà a liberarsi da quella maschera che porta da troppo tempo ormai e si abbandona alle tentazioni che troverà sul suo cammino. Cambiamenti dunque, come quello che avviene tra la ormai "finita" Winona Ryder e la nuova stella nascente Natalie Portman che diviene quindi la nuova "piccola principessa" di Cassel. L'uomo seduce Nina e cerca di far uscire fuori il suo cigno nero, finendo poi per farsi desiderare dalla ragazza. Se Odette vuole la libertà, Nina cerca la perfezione proprio come Aronofsky, regalandoci un finale tra i più belli di tutti i tempi. "Black Swan" è cinema, immersione in un mondo immaginario che si ibrida col reale e che riesce a farci evadere dalla realtà per catapultarci nel pensiero di un autore che definirei semplicemente perfetto.

Blue Valentine - La camera del futuro

Un film di Derek Cianfrance.
Con Michelle Williams, Ryan Gosling, Mike Vogel, John Doman, Ben Shenkman.
Drammatico
Durata 120 minuti - USA 2010
IN ITALIA IL 14/02/2013


Immaginate di vincere un viaggio per la vostra destinazione preferita, avete pochi minuti per preparare i bagagli. Arrivati li non riuscirete a godervi la vacanza perché una tempesta non vi permette di uscire dalla stanza d'albergo, ma adesso siete li e non potete tornare indietro. Paradosso: la felicità è nelle vostre mani, ma vola via con un soffio di vento. Questa è la sensazione che si avverte nel vedere questo capolavoro targato Derek Cianfrance. Il viaggio è la vostra vita, la vincita è l'incontro puramente casuale come quello che avviene tra Cindy e Dean, i quali si ritroveranno a fare i conti con gli ostacoli del loro percorso vitale (come mantenere una bambina e trasmetterle il loro amore). La destinazione è il futuro. "Blue Valentine" è principalmente una storia d'amore di una coppia che si perde col passare del tempo. Dean e Cindy decidono di passare del tempo da soli in una camera d'albergo dalle luci blu soffuse, lasciando la loro piccola dal nonno. Ma "Blue Valentine" non è solo quella luce blu che rappresenta il loro amore ormai non più rosso da un pezzo, ma è anche un viaggio d'esplorazione al livello psicologico dei due personaggi attraverso ripetuti salti temporali che provocano disorientamento nel vedersi alternare momenti gioiosi e giovanili con quelli grigi e maturi. "Apri la porta" continua a ripetere nella camera del futuro Dean a Cindy, la quale non si sentirà più di tenere la porta aperta al suo partner. Il tema affrontato da questo ottimo lavoro cinematografico è già visto sul grande schermo, ma questa volta le scelte stilistiche tendono a isolare questo prodotto differenziandolo dagli altri. Attraverso riprese in digitale del presente, e in 16 mm del passato (quasi fosse "Inland Empire" di Lynch) si riesce a fare di una storia che racconta la realtà amorosa di tante coppie dalla fiamma spenta una vera e propria "Bibbia" da seguire come lezione di vita. Degna di nota la scena del balletto dei due a metà del film che ricorda un pò la spensieratezza di Gene Kelly quando cantava "i'm singing in the rain" ma bisogna essere lungi dall'aspettarsi l'happy ending, infatti le scene che rievocano la contentezza della coppia sono subito annullate dalla rappresentazione del presente, che vede i due flaggellarsi a vicenda. Ma tornando a noi, immaginate di aver fatto quel viaggio, adesso siete bloccati li nella vostra "camera del futuro": non sapete cosa fare? Non mi resta che augurarvi buona visione.

A Dangerous Method:un regista dalle maniere forti.

L'ultima frase di A Dangerous Method è particolarmente significativa per la comprensione dell'opera e dell'autore stesso: "Talvolta bisogna compiere qualcosa di imperdonabile per continuare a vivere!". Si potrebbe rapportare la frase pronunciata dal filosofo Jung allo stesso Cronenberg. Il regista, infatti, sceglie di sperimentare un campo nuovo, una storia che riguarda una violenza psicologica più che fisica (come invece avevamo avuto modo di vedere nelle due recenti pellicole del regista). La scelta che egli compie infatti è decisamente azzardata: approdare ad una storia vera riadattata ad un testo teatrale per descrivere le violenze subite da Sabina Spielrein (interpretata da una Keira Knightley forzata quando deve mostrare la sua schizzofrenia) inflittele dal padre. Sabina viene quindi mandata da sua madre in cura dal giovane medico Jung che a sua volta, venera il filosofo Freud interpretato da Viggo Mortensen. La storia ruota attoro ad una morale particolarmente implicita, non facile da captare ad una prima visione ma che rimane comunque una forte componente della poetica cronemberghiana: per salvare qualcuno deve rimetterci qualcun'altro. Cronemberg sceglie quindi di salvare la pelle, in quanto sarebbe stato forse troppo rischioso per lui raffigurare nuovamente una pellicola che si accostasse alle ultime due (errore che diversi cineasti hanno commesso di recente, vedi Tim Burton con "Alice in Wonderland"). Di conseguenza, porta sul grande schermo qualcosa che risulta decisamente innovativo agli occhi degli spettatori. Chi si aspettava infatti lo stile che ha contraddistinto questo cineasta è uscito dalla sala profondamente deluso, ma chi è andato al cinema per constatare la crescita e la qualità indiscussa di un autore che riesce a stare al passo con i tempi, non ne rimarrà di certo scosso. La scena cult che vede nuda la Knightley( e di cui tanto si è discusso) resta li, bella da ammirare come una fotografia scattata da un grande artista, ma lontana anni luce dalla sequenza girata nella sauna con Viggo Mortensen in A History of Violence. Nota positiva: un Vincent Cassel che stravolge ogni ritmo, appare pochi minuti durante la pellicola quanto basta per risollevare l'attenzione di qualche spettatore che comincia a sbadigliare in sala (peccato vederlo per cosi poco tempo). A dangerous Method, quindi, risulta un'opera ben riuscita ma con qualche nota storta che non va giu ad una fetta di pubblico. Cronemberg è sempre stato un autore con le idee chiare, rifiutando blockbuster e girando pellicole che si sono ritagliate un posto nella storia del cinema e sotto questo punto di vista possiamo appoggiare la scelta dell'autore che alla fine del film sembra volerci dire: scusatemi, questa volta ho salvato la pelle, ma chi ci ha rimesso siete stati voi.

This Must Be The Place: alla ricerca della verità.


Cheyenne, una rockstar in pensione che sembra assumere le sembianze eccentriche di Robert Smith (cantante dei Cure), è il protagonista di quest'opera ultima di Paolo Sorrentino. Avevamo lasciato il regista italiano alle prese con la narrazione della vita di Giulio Andreotti (interpretato dal fedele Servillo): un film in cui si cercava di mostrare al pubblico una verità nascosta dalla politica italiana. L'autore di casa nostra infatti, non ha mai nascosto nella sua filmografia il tentativo di smascherare la verità attraverso viaggi d'esplorazione ora di personaggi, ora di cronaca. In questo caso le vicende riguardano Cheyenne (interpretato da un ottimo Sean Penn) che, venuto a conoscenza della morte del padre col quale non si parlava da 30 anni, parte alla ricerca di vendetta contro un uomo che ha "torturato" la sua figura paterna durante l'olocausto. Da qui il film sembra assumere le sembrianze di un vero e proprio "on the road", dove il vero protagonista sembra essere il tempo ( - Il problema è che passiamo troppo velocemente dall'età in cui diciamo "farò così" a quella in cui diremo "è andata così" -  frase detta da Cheyenne). Se, come suggerisce il titolo della canzone dei Talking Heads, il posto è quello giusto, non si può dire lo stesso del tempo. Il personaggio interpretato da Sean Penn è una figura depressa, costretta a portare con se il peso dei suoi errori (attraverso un carrello o una valigia) e che intraprenderà, con netto ritardo, un viaggio verso la sua maturazione che lo condurrà ad uno stato di smascheramento di personalità. Un indizio fondamentale per la comprensione dell'opera sorrentiniana, ci viene dato nella sequenza dell'ascensore, quando Penn espone ad alcune ragazze il segreto per mantenere più a lungo il rossetto sulle labbra ( il trucco sta nel mettere un pò di cipria sotto il rossetto, dice il protagonista alle ragazze), segreto che rivela la vera intenzione di Sorrentino nel ricercare la verità al di sotto delle apparenze. Proprio questo "trucco nascosto" ci apre la strada verso la lettura di ogni singola sequenza filmica: se il Muccino internazionale ricercava la felicità, Sorrentino si occupa della ricerca della verità. Non ci è nuova questa scelta autoriale da parte del regista Napoletano: sin dalle sue prime opere, infatti, l'autore guida i suoi personaggi allo smascheramento di lato occultati dalla finzione, dalle menzogne, proprio come avviene per Cheyenne. Sarà lui che intraprenderà il suo viaggio alla ricerca della verità su suo padre, guidato da un sentimento di vendetta in puro stile "Kill Bill" (Sorrentino ama il cinema di Tarantino), il tutto condito da qualche sprazzo di ironia che alleggerisce i toni di una storia troppo dura per medesimarsi sino infondo (Sorrentino inserisce delle carrellate in avanti e indietro per avvisarci quand'è il momento di tenere le distanze dalla catastrofe storica). Il procedimento adoperato dal regista partenopeo si accosta a quello di Benigni con "La vita è bella", distaccandosi solo se si parla di scelte stilistiche e autoriali. Entrambi hanno mostrato al pubblico verità terrificanti servendosi dell'arte del sogno, qual'è il cinema. Il dibattito finzione/realtà c'è e si vede, riferendosi ai mass media che oggi ci bombardano di false speranze, mascherando la verità sul fondo di altre realtà futili: la gente non dovrebbe essere interessata a vedere il pistacchio più grande del mondo, piuttosto chiedersi dove sia quello più piccolo. Cheyenne/Sorrentino  più volte afferma: "qualcosa mi ha disturbato, non so bene cosa, ma qualcosa mi ha disturbato", forse è proprio quest'occultamento del reale che disturba l'autore italiano. Egli infatti, disperato come il suo personaggio, tenta ancora una volta di aprire gli occhi al pubblico e di indirizzarlo alla ricerca del pistacchio più piccolo e non quello da primato mondiale (troppo facile da vedere): sappiamo tutti che non si avvererà mai questo desiderio sorrentiniano, sappiamo tutti che non è vero, ma è bello sentirselo dire.