La mia invenzione è destinata a non avere alcun successo commerciale.

Louis Lumière

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Blog a cura di Mimmo Fuggetti

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mercoledì 4 dicembre 2013

Hunger Games - La ragazza di fuoco

Regia: Francis Lawrence 
Interpreti: Jennifer Lawrence, Josh Hutcherson, Liam Hemsworth, Jena Malone, Elizabeth Banks, Philip Seymour Hoffman  
Usa, 2013 Durata: 146’ 

Bentornati signore e signori per un altra edizione degli Hunger Games. Avevamo lasciato la nostra eroina Katniss Everdeen (Jennifer Lawrence),  vincitrice della 74a edizione dei giochi, con il 'tributo' Peeta Mellark (Josh Hutcherson). A distanza di un anno però, i due devono abbandonare i propri familiari e amici per iniziare il "Tour dei Vincitori". Durante il percorso la ragazza sente che la ribellione è vicina e può esserci una svolta decisiva. Ma Capitol City è ancora sotto controllo e il Presidente Snow (Donald Sutherland) sta per preparare la 75a edizione. 
Risaltano subito agli occhi i cambiamenti rispetto al primo capitolo della saga: Philip Seymour Hoffman è il nuovo stratega, la regia passa dalle mani di Gary Ross (Pleasantville) a quelle di Francis Lawrence (Io sono Leggenda) e, essendo il secondo capitolo, non si sente più il bisogno di preparare il pubblico ad esplorare questo nuovo mondo fatto di giochi mortali, piuttosto si lascia più spazio alla ribellione dei distretti. 
Una racconto assolutamente straordinario (la saga è tratta dai romanzi di Suzanne Collins), fatto di colpi di scena, strategie creative e una buona costruzione dei personaggi, ma proprio com'è accaduto per il primo film, la storia si ripete: stiamo parlando di un blockbuster (discutibile anche la scelta di dividere l'ultimo capitolo della trilogia in due pellicole, ancora affidate alla regia di Lawrence). Ancorato a ciò che si è mostrato in precedenza, "Hunger Games 2" non è altro che un prolungamento di ciò che si è già visto. 
Non bastano gli interventi di Lawrence e le nuove strategie di Philip Seymour Hoffman, che provano a metterci del loro, ottenendo semplicemente sforzi inutili e macchinosi. Mettere in gioco lo spettacolo della morte evidenziando nuovamente le scene di combattimento nel bosco; riudire le voci dei personaggi del primo episodio non è semplicemente ciò che accade alla nostra eroina, ma è la stessa sensazione che si prova guardando questo secondo capitolo. Le frecce lanciate dalla Lawrence sono le stesse. Funzionano perché rendono scorrevoli 146', ma l'arma vincente di questa saga resta comunque la storia stessa. 
Proprio come accade per i grandi blockbuster americani, anche Hunger Games - La ragazza di fuoco deve fare i conti con il suo target spettatoriale di riferimento (e qui qualcuno può storcere il naso). 
Ci sarebbe piaciuto rivedere Francis Lawrence mettere in scena tutte le sue abilità registiche, ma questa volta il gioco non vale la candela. 

martedì 19 novembre 2013

LES REVENANTS: IL RITORNO DI UN CAPOLAVORO

Les Revenants, serie televisiva francese ideata da Fabrice Gobert (adattamento del film Quelli che ritornano di Robin Campillo, 2004), viene definito da diversi fans un vero e proprio Capolavoro. Altri invece sostengono che si tratti dell'ennesimo tentativo di riportare in vita i morti, cosi come abbiamo già visto svariate volte nelle innumerevoli serie tv e nelle sale cinematografiche.
Siamo in Francia, in un paesino di montagna, dove diverse persone morte da tempo, ritornano misteriosamente in vita. Tra questi vi sono: Camille (una ragazzina morta in un incidente d'autobus durante una gita scolastica), Simon (un giovane morto il giorno del suo matrimonio), Victor (un bambino dall'aria diabolica che non parla mai) e tanti altri. Intanto, si verificano degli altri strani fenomeni: si interrompe spesso la corrente, si abbassa il livello dell'acqua della diga del paese e compaiono diverse ferite sui corpi dei vivi e dei morti. Il tutto condito da una straordinaria colonna sonora, curata dal gruppo scozzese i Mogwai. 
Ricalco o novità quindi? La questione sulla quale si cercherà di mettere luce è se davvero si sente il bisogno di partorire nuovi prodotti seriali sul "ritorno dei morti viventi". Sono tantissimi gli esempi che potremmo riportare a riguardo, sia per quanto riguarda il cinema che per le serie televisive (da Twilight a The Walking Dead). Eppure questa volta la gente pensa di trovarsi davanti a qualcosa di davvero unico, innovativo. 
Sono passati 23 anni circa da quando un "matto" di nome David Lynch partorì la serie Twin Peaks dando vita a qualcosa di davvero innovativo e rivoluzionario e gli spettatori erano ben consapevoli di trovarsi davanti ad un prodotto che poteva essere definito Capolavoro. Adesso a distanza di anni, in un paesino della Francia, nasce qualcosa che potrebbe essere accostato al lavoro svolto in passato da Lynch. Forse per l'ambientazione Dark, forse per l'aspetto cosi dettagliatamente psicologico dei suoi personaggi o ancora, forse perché ci troviamo davvero a qualcosa di rivoluzionario! 
Allora cos'è che rende Les Revenants così importante da essere definito Capolavoro? 
Cominciamo col sottolineare che ci troviamo in Francia, non più paesini americani, anche se le diverse location che si ripercuotono per tutte le puntate ricordano tanto quelle di Twin Peaks, eppure utilizzate in maniera completamente diversa. I personaggi ritornano in vita, cosi come Gobert ritorna su Twin Peaks
Il ritorno potrebbe essere un'ottima chiave di lettura per interpretare questo nuovo prodotto seriale. Parafrasando Umberto Eco: " la serie risponde al bisogno infantile, ma non per questo morboso, di riudire sempre la stessa storia, di ritrovarsi consolati dal ritorno all'identico superficialmente mascherato", Les Revenants adempie perfettamente a tal proposito. Il ritorno dei morti maschera il ritorno ad un cinema, o meglio ad una serie rivoluzionaria che a sua volta viene rivoluzionata dall'utilizzo di uno schema completamente nuovo. La scelta è di non rappresentare zombie qualsiasi, ma gente normalissima, con dei sentimenti, che un bel giorno dopo esser stati nell'aldilà tornano a casa senza ricordare nulla di ciò che è successo. I "ritornati" vogliono un'altra occasione, una nuova vita, pur confrontandosi con quella passata. Nessuno spoiler, ma è inevitabile il confronto finale tra morti e vivi schierati l'uno davanti all'altro. Allora Les Revenants, proprio come i suoi protagonisti, compie la stessa operazione, schierandosi faccia a faccia col passato (Twin Peaks?), perché infondo tutti desideriamo il ritorno di qualcosa che non c'è più, meglio se superficialmente mascherato. Quindi se Capolavoro vuol dire dare vita a qualcosa di completamente nuovo e rivoluzionario, allora la strategia adoperata da Les Revenants può essere catalogata come un Capolavoro, perché siamo ritornati a vedere qualcosa di nuovo finalmente. 

mercoledì 24 luglio 2013

SE IL NANO DA UNA MANO: L'IMPORTANZA DELLA FIGURA DEL NANO NELLE SERIE TV

Come direbbe Tarantino: "sono i dettagli a fare la differenza". Stiamo parlando di qualcosa che a prima vista potrebbe sfuggire e che magari i più acuti riescono a cogliere.
Piccolo, eppure d'impatto: la figura del nano nelle serie televisive diventa ogni anno più frequente. 
Da dove si potrebbe cominciare? Ah si, partiamo dalla svolta avvenuta nel mondo delle serie tv, quando ad un autore cinematografico venne la folle idea di sperimentare le sue potenzialità attraverso la tv, dando più spazio alle sue visioni, ai suoi enigmi: stiamo parlando di David Lynch. 
Twin Peaks, infatti, in un certo senso anticipa tutte le altre serie che hanno sfruttato questa tipologia di personaggi. Nel caso seriale made in Lynch, il nano "danzante" appariva in un sogno, dettaglio di importanza notevole se si considera la sua collocazione fittizia o metafisica, se vogliamo. Il nano di Twin Peaks fa da pendolo nella sfida tra il bene e il male e ancor più che nella serie televisiva di Lynch, questo ruolo viene assunto anche da un'altro nano in un'altra opera seriale ideata da Daniel Knauf: Carnivàle. Quest'ultima, sicuramente meno fortunata della precedente, è una serie ambientata nell’America degli anni Trenta e narra le vicende di una compagnia circense nella quale figura un fuggiasco di nome Benjamin Hawkins. Il ragazzo possiede il dono di donare la vita o la morte ed è spesso turbato da sogni profetici, in cui compare l’inquietante figura di un prete metodista, Padre Justin Crowe. Ma tralasciando il resto della storia, indovinate un pò a chi era affidato il comando della compagnia circense? Si, un nano, ma non uno qualunque, si tratta dello stesso che compariva in Twin Peaks (Michael J. Anderson). Proseguendo sulla stessa scia, si arriva alla fortunatissima serie televisiva Streghe, dove le sexy sorelle Halliwell sono alle prese ancora una volta in uno scontro tra il bene e il male e di volta in volta si ritrovano catapultate in diversi paesaggi fiabeschi e anche in questo caso, la figura del nano è sempre presente (vedi l'arcobaleno che compare con i bastoni dei nani).
Ma proviamo a spingerci verso i giorni nostri e ad analizzare le serie cult del momento. 
Ci troviamo nell'era digitale, dove ogni puntata è ormai alla portata di un semplice click, quindi più che di serie televisive, siamo ben consapevoli di parlare di "serie streaming". Dove voglio arrivare? Oggi le serie tv si sono moltiplicate e ognuna di loro si caratterizza per alcuni tratti originali e d'impatto. Le major sfornano nuovi prodotti seriali in continuazione e la gente è arrivata a seguire più serie contemporaneamente proprio grazie alla sua semplicissima reperibilità. Tra gli innumerevoli prodotti seriali partoriti negli ultimi anni, spiccano due titoli interessanti che rientrano perfettamente nella nostra analisi: Once Upon a Time e Game of Thrones. Nel primo caso l'atmosfera fiabesca è espressamente visibile trattandosi dei personaggi delle fiabe che vengono catapultati nel mondo "reale" a causa di un sortilegio fatto dalla regina cattiva di Biancaneve (ma guarda un pò, proprio lei). Di conseguenza, essendo l'amatissima Snow White una delle protagoniste della serie, risulta quindi fondamentale l'aiuto dei sette nani. 
Nel secondo caso, invece, ci troviamo davanti ad una atmosfera decisamente più mitologica, dove la figura del nano (Peter Dinklage, che comparve anche in Nip/Tuck) viene accostata a quella della "pecora nera" della famiglia dei Lannister.
Sarà un caso, o forse no, ma i nani oggi risultano sempre più frequenti nei prodotti seriali. 
Piccoli come dettagli (tornando alla citazione tarantiniana), saranno proprio loro a fare la differenza?

domenica 2 giugno 2013

COSMOPOLIS E L’IPER-CRONENBERG (di Mimmo Fuggetti)




INTRODUZIONE

 “Tutto nelle nostre vite ci ha portato a questo momento”
Benno Levin (in Cosmopolis)

Sono passati ben 37 anni da quando David Cronenberg diede luce ad un' opera intitolata Il demone sotto la pelle. Oggi quello stesso demone non si accontenta più di restare rinchiuso, il topo che strisciava nelle fogne è finalmente venuto fuori e prepotentemente acquista valore.
David Cronenberg nasce a Toronto il 15 marzo del 1943, da una famiglia ebraica e  in questa stessa città si innamora del cinema, privilegiando quello europeo a quello americano. L’influenza del posto in cui nasce e cresce gioca un ruolo fondamentale per la formazione cinematografica del regista canadese. Come egli stesso sostiene, in Canada si vive come paralizzati dietro una frontiera, non ci si muove, a differenza di quanto accade in America. Proprio questa immobilità esplicitata da Cronenberg prende vita nelle sue opere, accostandosi alla mutazione: i suoi film restano stabili per quanto riguarda le tematiche, eppure presentano diverse forme di mutazione. Il paradosso di questo autore è racchiuso in questo desiderio, quello di discostarsi dall’immobilità canadese, dalle proprie radici, senza però rinnegarle, ma piuttosto manifestandolo attraverso molteplici forme di mutazione. Il suo cinema deve tanto alla città di Toronto, in particolare le sue prime opere. Gianni Canova prova a mettere luce sulla crescita e sull’influenza del regista canadese:

Cronenberg non è semplicemente canadese. E’ di Toronto. Vi nasce il 15 marzo 1943, in una famiglia ebrea composta da un padre giornalista-scrittore e da una madre musicista. A Toronto Cronenberg frequenta il liceo, studia all’università, si laurea in letteratura inglese. E’ a Toronto si innamora del cinema: non tanto di quello spettacolare e hollywoodiano (che pure conosce molto bene), quanto di quello che egli stesso definisce “oscuro” e che comprende autori europei come Jancsò e Resnais, Bergman e Antonioni. Toronto non è una città qualunque. Vi insegna Marshall McLhuan. E vi si rifugia un ribelle transfuga dagli Usa  come William Gibson, che proprio nella città di Cronenberg licenzia il suo primo romanzo nel 1983. […] Forse una vocazione come quella di Cronenberg, indecisa tra l’entomologia (mosche, scarafaggi, millepiedi) e la letteratura (Burroughs, ma anche Nabokov, Henry Miller, Beckett), oscillante fra la facoltà di scienze e quella di Belle Lettere, è più possibile a Toronto che a Los Angeles o Detroit. Forse il genius loci non è solo un’invenzione dei romantici o degli antropologi della cultura. Comunque sia, quel che è certo è che il cinema di Cronenberg – almeno quello degli esordi – deve molto a Toronto: alle sue architetture, ai suoi edifici, alla sua luce. A quell’atmosfera di ordine apparente che nasconde un disordine strisciante fatto di impulsi repressi e di bisogni insoddisfatti. (Canova, 2007 : 14)

La questione del Canada viene analizzata anche da Marshall McLuhan, ponendo l’accento sulla qualità canadese nell’essere più predisposto, rispetto ad altri paesi, all’ecumenismo politico dell’era elettronica che ha portato alla formazione del villaggio globale. Il canadese Cronenberg quindi sembra voler manifestare le sue influenze culturali nelle sue pellicole. Uno dei temi centrali che possiamo riscontrare in tutta la sua filmografia è quindi quello della mutazione.  Ma che tipo di mutazione avviene nel cinema di Cronenberg? E cosa è dovuta?
Si cercherà quindi di rispondere a questi interrogativi attraverso l’analisi del film Cosmopolis, allacciandoci alle precedenti opere del regista canadese, riscontrando quanto sia presente la sua cultura nell’intera filmografia.



CAPITOLO 1
LA MINACCIA
 “lui è in giro ed è armato”
Benno Levin (in Cosmopolis)
Una particolarità del cinema di David Cronenberg sta nel fatto che i suoi film cominciano quando tutto è già successo e qualcos’altro sta accadendo: la mutazione.
Sotto alcuni aspetti, Cronenberg, può considerarsi l’erede di Buñuel, in quanto anche il regista canadese decide di dare un “taglio” al mondo che conosciamo per mostrarci altri mondi creati dall’immaginario fantastico. La cultura canadese infatti, sente il bisogno di dare un’impronta al proprio cinema, che possa essere un cinema di inventiva e in questo senso Cronenberg cerca quella potenza che dà libero sfogo all’immaginazione. Nella prova operata dalle classi dirigenti del Canada, di creare una cultura nazionale concorde, che potesse fungere da diga all’invadenza americana, il cinema ha giocato un ruolo molto importante. Diversi registi sono emigrati negli Stati Uniti, altri hanno preferito rimanere attaccati alle loro origini e remare contro il predominio americano. David Cronenberg è uno di questi. Il risultato finale è che il cinema canadese vive una realtà agitata, divisa tra l’integrazione ad Hollywood e l’affermarsi di una cultura “distrettuale” molto competitiva, anche se minoritaria. Quindi la minaccia avvertita dal Canada deriva proprio dal predominio hollywoodiano e dalla sua identità fragile ed eterogenea:

Qui forse conviene ricordare quanto scritto da Sacvan Bercovitch, il grande studioso di cultura americana (nato tra l’altro in Canada). Vale a dire: il Canada rappresenta un caso a sé stante di nazione senza una mitologia che la fondi. Gli Stati Uniti d’America hanno sempre costruito la loro grandezza sulle basi di un ben preciso rituale di consenso, attraverso un mito consolidato storicamente che, pur nelle sue pretese imperialistiche e di superiorità, ha permesso a ciascuno dei loro abitanti di potersi riferire ad una identità “americana”. Il Canada sembra invece sempre vincolato a una perenne condizione di “colonia”, di paese privato di un gesto di appropriazione simbolica nella costruzione di una identità, al punto da caratterizzarsi soprattutto per una sorta di “retorica dell’assenza”: l’essere al tempo stesso non europeo, non americano, non indiano (non armeno…), non mitologico. […] Il problema, semmai, è che questa Storia e questa mitologia è come se non fossero mai esistiti. (Michele Fadda, 1999 : 65)

David Cronenberg paragona il capitalismo alla malattia dell’AIDS cosi come quest’ultima veniva paragonata ad altre tipologie di virus che contaminavano i personaggi che compongono la filmografia del regista canadese. Quindi per comprendere questa condizione prettamente canadese che è restia all’integrazione hollywoodiana (come se non volesse essere contagiata dal virus) allacciandoci al capitalismo trattato da Cronenberg in Cosmopolis, può risultare d’aiuto quanto scritto da Andrew Parker:

This universalizing idiom is itself the reflection of Canada’s position in the capitalist world system: a Canadian filmmaker whose primary market is the United States may think himself compelled to efface in his work all signs of national difference. This conflict between the universal and the singular cuts deeply throughout Cronenberg’s career. Thinking of his early days as a filmmaker, he describes how “it was different in Canada, as always. We wanted to by-pass the Hollywood system because it wasn’t ours. We didn’t have access to it. It wasn’t because we hated it, but because we didn’t have an equivalent, and we didn’t have the thing itself”. (Parker, 1993 : 220)

Da quanto riportato, è avvistabile l’atteggiamento assunto dal Canada e la spaccatura che si è venuta a creare tra la sua popolazione. La minaccia avvertita dal Canada, quindi, è quella del mondo hollywoodiano, un virus potentissimo che entra in circolazione nelle vene della cultura canadese. Su questo punto può essere d’aiuto quanto scritto da Andrea Giaime Alonge che evidenzia l’approdo di Cronenberg alla mutazione:

Il racconto fantastico, per sua natura, è sordo alle ragioni della verità storica e geografica. Ma se il Canada di Cronenberg è un’entità evanescente, gli avvenimenti che hanno luogo in questo territorio di grado zero recano traccia di una delle principali ossessioni canadesi: la paura della mutazione, della strisciante invasione lanciata dagli Stati Uniti che, lentamente ma inesorabilmente, trasforma i canadesi in americani. L’opera di Cronenberg gravita attorno al tema dell’alterazione del corpo e/o della mente in qualcosa di radicalmente altro. Il risultato della trasformazione è un monstrum: un essere dai poteri sovraumani; un individuo regredito alla condizione ferina, preda dei propri istinti; un ibrido tra l’uomo e la macchina (Videodrome), oppure tra l’uomo e l’animale (La mosca). (Giaime Alonge, 1997 : 52)

La paura della contaminazione ha quindi spinto il regista canadese a concentrare il suo cinema sulla tematica della mutazione. Le molteplici forme di mutamento, uomo/macchina o uomo/animale, sono riscontrabili nella sua filmografia. Se nel suo primo cinema, infatti, David Cronenberg si concentrava più sulla trasformazione corporea del personaggio, adesso sembra spostarsi più verso l’aspetto psicologico con i suoi ultimi due lavori: A Dangerous Method e Cosmopolis. La mutazione percepibile in queste due opere è strettamente legata ai cambiamenti sociali. Nel primo caso, il triangolo Freud-Jung-Sabina ci mostra la nascita della psicoanalisi, del cinema e dell’uomo contemporaneo. In Cosmopolis, invece, viene messa in scena la fine di quell’epoca raffigurata nella pellicola precedente e la catastrofe del capitalismo. Cronenberg sembra essere approdato ad un punto di non ritorno: l’apocalisse è vicina e il capitalismo incombe prepotentemente su di noi come un virus dal quale non si può guarire. Roy Menarini sottolinea come il regista canadese abbia mostrato la mutazione psicologica in questi due film, pur non abbandonando l’importanza dei corpi:

Già A Dangerous Method possedeva un lato di gag glaciali e sotterranee tra Freud e Jung. Qui, dove si discetta di capitalismo e crisi, Karl Marx sembra trascolorare in Groucho (un logorroico, guarda caso) e la torta in faccia, le scenette quasi slapstick fuori dal finestrino dell’auto, il catalogo di ospiti bislacchi nella limousine del ricco protagonista lasciano pochi dubbi. In fondo, come spiega la sequenza finale, l’andamento della moneta segue le asimmetrie dell’anatomia umana. Tutto è corpo, secondo l’antico cantore della nuova carne, Cronenberg, anche se da qualche anno pare interessato, con ghigno brechtiano, a riscrivere la storia psicologica dell’uomo moderno occidentale.
(Menarini, 2012 : http://www.mymovies.it/film/2012/cosmopolis/news/ilcorpoedenarofirmatocronenberg)

Probabilmente, l’interesse che David Cronenberg prova verso l’aspetto psicologico è strettamente collegato quindi al cambiamento sociale del mondo odierno. L’operazione che il regista canadese compie nei suoi film sta proprio nella divisione tra mente e corpo. Come egli stesso sostiene:

Buona parte del pensiero filosofico più elevato ruota attorno all’impossibile dualismo di corpo e mente… la base dell’horror – e della difficoltà della vita in generale – consiste nel fatto che non possiamo comprendere in che modo si muore. Come mai una mente sana dovrebbe morire, solo perché il corpo non è sano? Sembra che in questo ci sia qualcosa di sbagliato. (Dery, 1997 : 262)

La mutazione che avviene nei suoi personaggi è sintomo di una malattia causata da un contagio (identificabile con gli Stati Uniti). Il capitalismo raffigurato in Cosmopolis può essere l’esatta spiegazione di ciò che il regista canadese ha sempre raffigurato nelle sue pellicole: un virus che infetta i suoi personaggi e che provoca la malattia.



CAPITOLO 2
IL VIRUS IN COSMOPOLIS
 “ Il futuro è impaziente, accadrà presto qualcosa, forse oggi”
Didi Fancher (in Cosmopolis)
Il giovane e potentissimo guru della finanza Eric Packer (interpretato da Robert Pattinson) attraversa molto lentamente la città di New York per un semplice capriccio: aggiustare il suo taglio di capelli. Gli uomini della sicurezza a sua disposizione lo avvertono delle minacce incombenti sulla sua persona e del frenetico caos che regna per le strade della Grande Mela a causa della visita del Presidente degli Stati Uniti. Malgrado tutto, il testardo Pattinson decide di ritornare dal suo parrucchiere di fiducia, lo stesso con cui chiacchierava da piccolino in compagnia di suo padre. Ed è proprio questo il perno cinematografico dell'opera: il ritorno. Cronenberg torna al suo amato cinema dominato dalla mutazione, dalla morte, dal virus della società americana, quello stesso virus che il regista canadese da tanto tempo, inesorabilmente, tratta come una contaminazione alla quale è impossibile sfuggire. Il personaggio principale, interpretato da Robert Pattinson, si presenta arrogante e sicuro di se, proprio come tutti i protagonisti del cinema di Cronenberg, ma con lo sviluppo della storia, ci si renderà conto della sua fragilità e della sua instabilità:

In tutta la mia opera ricorre il tema della mutazione. Che è poi il tema dell’identità, della sua fragilità. All’inizio di quasi tutti i miei film i personaggi danno l’impressione di aver fiducia in se stessi, di sapere dove stanno andando. C’è in essi una sorta di arroganza: credono che il futuro sarà esattamente come essi hanno previsto. Ognuno di noi, del resto, ha questa forma di arroganza. Ma quando interviene l’imprevisto, l’idea che noi avevamo della realtà si rivela diversa dalla realtà stessa, ed ecco il caos, il disastro. Allora il nostro senso della stabilità vacilla, assieme alla nostra fiducia in essa. Questo processo si ritrova in ogni mio film. Come in Il pasto nudo, io cerco sempre di mostrare quel momento unico e bloccato in cui ciascuno vede ciò che c’è sulla punta della sua forchetta: cioè quel momento in cui ci si rende conto che la realtà non è che una possibilità, debole e fragile come tutte le altre possibilità. (Canova, 2007 : 8)


Cosmopolis (tratto dall'omonimo romanzo di Don DeLillo che Cronenberg stesso ha dichiarato come un’opera scritta per un suo film) va’ però oltre ciò che David Cronenberg ha tentato di mostrarci sino ad oggi, questa volta ci troviamo davvero in un punto di non ritorno. Eric è un costrutto della società capitalista americana, vive nel suo mondo (la limousine), parla la stessa lingua di tutti i personaggi che incontrerà, ma gli argomenti trattati fluttuano nell'aria e restano scostanti. Nel film, Robert Pattinson cerca quel ritorno ad uno stato primordiale senza alcuna contaminazione sociale che però, secondo Cronenberg, non può esserci. Nel caso di Cosmopolis, un ruolo fondamentale lo ricopre la cybercultura e lo sfondo di un era ormai ipertecnologica:

La dichiarazione fatta da Marshall McLuhan nel 1967, secondo cui i media elettronici ci hanno gettato in un confuso e frenetico “mondo di simultaneità” in cui le informazioni “si riversano su di noi, in modo istantaneo e continuo”, e talvolta ci sopraffanno, è oggi più vera di quanto non lo sia mai stata”. La vertiginosa accelerazione dell’America postbellica è stata prodotta quasi per intero dal computer, la macchina informativa che ci ha spinto fuori dall’età del capitalismo della produzione materiale scagliandoci nell’era del capitalismo postindustriale multinazionale.  (Dery, 1997 : 9)

La vertiginosa accelerazione, ma se vogliamo anche mutazione, subita dall’America è uno dei punti chiave del film di Cronenberg. Alle vicende del protagonista, fa da sfondo un’era completamente modernizzata che ipotizza anzi, un futuro ipertecnologico che rappresenta  un incubo gravante già nel nostro presente. Eric, quindi, percorre la sua via crucis che lo condurrà verso la morte, una morte che però si manifesta sin dai primi minuti del film percepibile sotto ogni desiderio impossibile del protagonista. Sesso, potere, trasgressione, bellezza sono elementi che Eric possiede, ma ogni qual volta desidera qualcosa, questo suo desiderio risulta impossibile da soddisfare, come il voler far sesso con sua moglie, possedere la Rothko Chapel: la felicità è lì davanti, ad un passo da lui, ma non può essere toccata. Il punto di non ritorno è raffigurato dall'insoddisfazione del protagonista, quella bellezza che veste i panni del terrore e del disgusto, una nuova frontiera della trasgressione, raffigurata dall' iper, dal post. Il male incombe sul mondo odierno, il virus è ovunque, il contagio c'è già stato: si può decidere di imbottire una limousine di sughero, al suo interno, quanto si desidera, ma non servirà ad esternare i rumori caotici del mondo in cui si vive.
L’operazione compiuta da Cronenberg in questa pellicola è la stessa fatta diversi anni prima con le sue prime opere. Il virus americano contagia la società canadese, cosi come il capitalismo ha portato caos e distruzione nel mondo odierno. Il cambiamento dovuto alla contaminazione può essere manifestato in modalità diverse nelle pellicole del regista canadese. Nel caso di Cosmopolis, Cronenberg (ma come lui anche lo stesso Don DeLillo) pone l’accento sull’importanza del denaro e su come questo cambia il mondo. A tal proposito è possibile constatare una influenza proveniente dagli scritti del canadese Marshall McLuhan riguardo l’importanza della moneta e su come questa ha trasformato la società e la comunicazione:

La folla di persone e le pile di soldi non soltanto tendono all’accrescimento, ma generano inquietudine sulla possibilità di una disintegrazione e di una deflazione. Il movimento in due sensi dell’espansione e della deflazione sembra la causa del nervosismo delle folle e dell’inquietudine che s’accompagna alla ricchezza. […] Al deprezzamento del marco s’accompagnò parallelamente quello del cittadino. Si ebbe una perdita di dignità e di valore, nella quale le unità personali si confusero con quelle monetarie. (McLuhan, trad. 1992)

Nel futuro (che potrebbe essere rapportato quindi al nostro presente) di Cosmopolis, il topo diventa lo strumento di protesta, inteso come nuova unità monetaria. Il concetto espresso da Marshall McLuhan è di fondamentale aiuto per comprendere quanto il denaro abbia plasmato l’individuo contemporaneo, conducendolo verso la pazzia e il caos totale. David Cronenberg esalta la mutazione avvenuta a causa del denaro con sequenze che rimandano ad un pensiero apocalittico (ad esempio la scena in cui la gente si ribella mostrando un ratto gigante per le vie di New York mentre Eric è dentro la sua Limousine che intanto viene graffita dai manifestanti). Nella sceneggiatura del film, compare una frase pronunciata dal protagonista, che potrebbe racchiudere il significato di quanto analizzato sino ad ora: “la logica evoluzione degli affari è l’omicidio”. Probabilmente l’omicidio che intende Eric nel film è da accostarsi al denaro stesso: il capitale conduce alla morte. Per questo motivo il topo assume un ruolo significativo nel film, in quanto rappresenta una sorta di formattazione del sistema sociale che possa condurre alla costruzione di una nuova vita:

Man mano che il millennio si avvicina, possiamo notare la convergenza tra quella che Leo Marx ha chiamato “la retorica del sublime tecnologico” – inni al progresso che si innalzano “come spuma su un’onda di esuberante stima per se stessi, che ricopre tutti i timori, i problemi e le contraddizioni” – e l’escatologia che , in un modo o nell’altro, ha strutturato il pensiero occidentale lungo tutta la sua storia: il secondo avvento giudaico-cristiano, il mito capitalistico del progresso infinito, la concezione marxista del necessario trionfo del proletariato sulla borghesia. (Dery, 1997 : 16)



CAPITOLO 3
LA SOLUZIONE
 “Distruggere il passato,  creare il futuro.”
Elise Shifrin (in Cosmopolis)
Il cinema può rimandare ad un pensiero di chirurgia: quel fare a pezzi il corpo come fossero  frammenti di inquadrature accorpate attraverso il montaggio. Il cinema di David Cronenberg è pieno di scienziati (pazzi il più delle volte) e soprattutto di medici. Questi personaggi ci spingono a pensare alla questione della malattia. L’autopsia privilegia quella forma intellettuale mediata dalla vista. La questione del corpo e dello squarto è strettamente legata a quella della morte. Nel film Inseparabili vi è l’esaltazione della bellezza interiore del corpo (inteso come organi) e questa prospettiva ci conduce verso l’esplorazione della bellezza e del piacere per l’invisibile. Lo spostamento dell’interesse per l’estatica di Cronenberg è presente in Cosmopolis ed è riscontrabile nella scelta dello spazio. L’unico spazio significativo nell’opera può ricondursi all’automobile (una limousine bianca dalla bellezza estetica indiscutibile, ma ciò che interessa al regista canadese è ciò che c’è al suo interno), il mezzo con cui avviene la mediazione tra Eric e il mondo che lo circonda. E’ proprio nella limousine che avvengono tutti gli incontri rilevanti per il protagonista. Sesso, alimentazione, defecazione, contatti, relazioni, dialoghi e soprattutto visite mediche, sono tutti elementi che si verificano all’interno dell’auto. Si tratta quindi di uno spazio che è un non-luogo eppure attraverso il movimento è ovunque, proprio come le vie informatiche, ormai fondamentali per l’uomo come la stessa aria che respira. Ancora quindi l’importanza della scienza e dello sviluppo tecnologico in quest’opera di Cronenberg che fa da sfondo al tema del denaro e a come sta plasmando il mondo. La mutazione, come in tutti i film dell’autore canadese, è quindi la causa della malattia che incombe sui protagonisti delle sue opere. Eric Packer sembra compiere un viaggio negli inferi, dove ad attenderlo vi è la sua perdita dell’identità, la dissoluzione della sua stessa natura:

Oggi, più di quarant’anni dopo le preveggenti osservazioni di McLuhan a proposito delle “immagini di sesso, tecnologia e morte, che spesso si presentano a grappoli”, la cybercultura è satura di questi temi interconnessi: l’esorcizzazione delle macchine, il sesso mediato dalla tecnologia, il sesso con la tecnologia e il reinstradamento dei desideri carnali in orge di distruzione high tech. (Dery, 1997 : 207)

Per dissoluzione della sua natura quindi, si può intendere quella perdita di identità d’origine. Tale perdita, in Cosmopolis, è dovuta all’interazione tra sesso e tecnologia che, unendosi, fanno di Eric una sorta di mutante/mostrum:

Marshall McLuhan, scrivendo nel 1951, ha definito “una delle caratteristiche più peculiari del nostro mondo: l’interazione tra sesso e tecnologia”. Questa bizzarra unione, secondo ;cLuhan nasce da “un’avida curiosità, da un lato, di esplorare e dall’altro, di possedere la macchina in un modo sessualmente gratificante”. Il secondo motivo, che McLuhan esplora solo di passaggio, è stato raccolto dalla cybercultura, che l’ha allargamente incorporato nelle sue fantasie collettive. (Dery, 1997 : 207)

David Cronenberg sin dal 1996 con il film Crash, portò sul grande schermo l’ibridazione tra sesso e tecnologia: quasi esclusivamente tutti gli atti sessuali si svolgevano all’interno delle automobili e se cosi non era, l’atto perdeva la sua attrattività. Sotto questo punto di vista quindi, Crash riprende alla perfezione il “triangolo” trattato da Marshall McLuhan (sesso, tecnologia e morte) e Cosmopolis può considerarsi un’opera che riprende gli stessi temi trattati dal regista canadese in precedenza. La morte quindi è sempre incombente sui protagonisti di Cronenberg e anche in questo caso, Eric è un costrutto del suo tempo e della sua cultura. Gran parte dei personaggi cronenberghiani inoltre sono dei veri e propri narcisisti e le macchine per il sesso possono rappresentare uno specchio che attraverso il suo riflesso fortificano il senso maschile dell’io:

Il risultato è un circuito chiuso narcisistico che assomiglia a quello che lo psichiatra freudiano Jaques Lacan chiamava lo “stadio dello specchio” dello sviluppo psicologico, la fase della prima infanzia in cui il bambino arriva a riconoscersi nello specchio e comincia a formarsi un’immagine integrata di sé. Arriviamo al senso di un ‘io’ scoprendo quest’ ’io’ che ci viene riflesso da qualche oggetto o persona del mondo esterno”, spiega Terry Eagleton nella sua discussione di Lacan. “Questo oggetto è in qualche modo parte di noi – noi ci identifichiamo con lui – eppure non è in noi, è qualcosa di alieno. (Dery, 1997: 218)

L’inizio di Cosmopolis ci apre le porte verso questa lettura: il capriccio del protagonista del film (vuole aggiustare il suo taglio di capelli) lo introduce come un personaggio che cura molto il suo aspetto e in seguito, attraverso i dialoghi, le vicende e i suoi atteggiamenti, scopriamo quanto narcisismo ci sia in lui. I film di David Cronenberg possono essere considerati come anelli che compongono una lunga catena di esplorazioni psicologiche e filosofiche. Egli analizza la metafisica attraverso la fisica e, sezionando corpo e mente e la relazione che intercorre tra questi, cerca di svelare la psiche ed esaminarla attraverso uno “specchio”. Questo personaggio, quindi, vive all’interno della sua auto dove può specchiarsi e ammirare la sua eccellenza e all’interno di quell’auto avvengono, come descritto in precedenza, la maggior parte degli incontri. Tra questi vi è anche la figura di un medico, il quale informa Eric che la sua prostata è asimmetrica. L’interrogativo, quindi, sulla salvezza del protagonista, o meglio dei protagonisti dei film di Cronenberg può forse essere legata alle figure dei medici? Esiste allora un modo per Eric di salvare la sua anima dalla minaccia imminente? Probabilmente, però, il vero medico del film è proprio il protagonista Eric Packer. Questo è supponibile durante lo “scontro finale” con Benno Levin (interpretato dall’attore Paul Giamatti) dove i due personaggi si confrontano con un ‘faccia a faccia’. Nell’epilogo filmico che potremmo definire a tratti surreale, infatti, si può notare quanto Benno odia Eric, odia ciò che egli rappresenta ed è deciso ad ucciderlo ad ogni costo, forse perché questa potrebbe essere l’unica guarigione alla sua malattia. Il rapporto che intercorre tra i due personaggi potrebbe essere  peccatore/prete, paziente/medico, e rappresenta l’emblema di tutto il cinema cronenberghiano. “Tu dovevi salvarmi” confessa Benno ad Eric, ma l’ultima pellicola del regista canadese non accetta vie di fuga, come dal resto tutta la sua filmografia.
 Il film è ricco di dialoghi: parole su parole che conducono ad altre parole e che convogliano verso un’unica strada rappresentata dal nulla. Ed è proprio qui che si può scorgere quest’ultima mutazione messa in scena da Cronenberg: la perdita della presenza reale in un’umanità disincarnata, raffigurata già dal post, appunto. David Cronenberg trattò il cyberspazio in Videodrome, poi ripreso (e forse potenziato) con ExistenZ. Con il film Cosmopolis, il regista canadese riprende il tema dell’ibridazione tra uomo e macchina e lo amplifica approdando al tema dell’iper. Su questo tema Gualtiero De Marinis prova a descrivere il lavoro compiuto da Cronenberg e evidenzia l’importanza della sua cultura canadese, la quale lo ha condotto ad affrontare questa tematica:

Insomma realizza finalmente che la televisione è tattile. (McLuhan, encore). E che “La tattilità non ha più il senso organico del toccare: implica semplicemente la contiguità epidermica dell’occhio e dell’immagine, la fine della distanza estetica dello sguardo”. (Baudrillard, cette fois). […] Se lo schermo televisivo è dunque la retina dell’occhio della mente, la cassetta è naturalmente il suo alimento. Abbiamo esteriorizzato nei media dei pezzi del nostro corpo e nel far questo siamo entrati a far parte di una grande rete neurale (è cosi che si chiamano certi sistemi di computer) che è anche’ essa un’esteriorizzazione del nostro sistema nervoso centrale. […] Sarà che in Canada è nato McLuhan e lì ha insegnato e spiegato al mondo che ogni medium è un’estensione del nostro corpo, in particolare, nel caso delle tecnologie telematiche, un’esteriorizzazione del nostro sistema nervoso. Sarà che in Canada Gibson ha scritto Neuromancer, di certo ha sofferto il freddo, probabilmente ha letto McLuhan e quasi certamente non ha conosciuto Cronenberg. Ma c’è qualcosa che li lega. E’ passato da molto il tempo in cui il cinema era il gioco più eccitante in città, quindi anche la sua capacità profetica è in ribasso. La capacità, intendo, di mettere in chiaro quel che sta succedendo adesso e di cui nessuno sembra accorgersi. Che è poi ciò di cui parlano incessantemente McLuhan e Gibson.
(De Marinis, 1995 : 50,59)

Il cinema di David Cronenberg sembra quindi accostarsi a ciò di cui parlano McLuhan e Gibson: trattare l’attualità, il modo in cui la società cambia e le minacce che si manifestano nel presente, quello che Gualtiero De Marinis etichetta come “quel che sta succedendo adesso”. Cosmopolis tratta il presente raffigurando il futuro e le possibili condizioni a cui ci indurranno le nuove tecnologie e il capitalismo. La guarigione sembra quindi non esserci affatto, non esisterebbe cura. Forse l’unica via d’uscita proposta dal regista canadese è proprio la morte (che è poi il finale del film, apparentemente aperto a chi non ha letto il libro di DeLillo).  Proprio la morte viene trattata da John Costello che prova a spiegare come Cronenberg conduca i suoi personaggi alla liberazione dal virus, dal contagio:

I personaggi ancora una volta si rifiutano di obbedire alle “regole” convenzionali, seguendo il proprio “bianconiglio” in buche che conducono inesorabilmente alla pazzia e alla morte, che rimane comunque preferibile alla mediocrità. Dovremmo tutti essere grati a Cronenberg, che ci illustra, con dettagli grafici, quanto precaria e falsa sia in realtà la condizione umana. Mostrando ciò che non sarebbe mostrabile, parlando dell’indicibile, ci permette di confrontarci con i nostri demoni, di dare un volto ai nostri incubi e di sbirciare nell’abisso, senza andare mai sotto la superficie. (Costello, 2001 : 23)

Riprendendo il discorso della cura dal virus quindi, l’unica soluzione presente nella filmografia di David Cronenberg sta dunque nella morte. I suoi personaggi pur di non vivere nella mediocrità e nell’insoddisfazione approdano alla morte come se quest’ultima fosse una medicina capace di guarire dalla contaminazione che c’è stata, dal cancro entrato nella pelle dei personaggi, che non offre via di scampo. Il metodo col quale il regista canadese affronta questa guarigione sta nella raffigurazione di ciò che non si vede, che non è tattile. Così come il cinema frammenta e ricompone i pezzi attraverso il montaggio, Cronenberg in Cosmopolis suggerisce di riadattare questa tecnica anche alla nostra società, distruggendo il passato e costruendo un nuovo futuro.
Una delle malattie che ripercorre nei personaggi principali dei film del regista canadese è la paranoia. Anche il protagonista Pattinson nel film sembra essere un paranoico, giunto a questo punto della sua vita probabilmente con una irrefrenabile voglia di desiderare sempre di più, di trasgredire, di provare nuove sensazioni, come sparare alla sua guardia del corpo e sembra godere nel momento in cui il medico gli infila un arto nel sedere. Il personaggio di Eric, in un certo senso, si accosta al protagonista del film Il pasto nudo Bill Lee e a tal proposito Ottavio Di Brizzi scrive:

Il mondo svanito, il paesaggio cadaverico che ospita un soggetto megalomane che si sente unico depositario dell’Ordine delle Cose, è la creazione di una catastrofe interiore, di una incapacità o impossibilità di  rivolgere verso l’esterno la propria libido, di una implosione caotica che, proietta all’esterno, svuota di senso e di importanza la realtà. Un’apocalisse interna al soggetto proietta uno scenario di minaccia che solo il soggetto delirante potrà sciogliere. Il paranoico non fa altro che ricostruire un mondo abitabile, un universo nuovamente pulsante (scrive Freud: “Egli lo costruisce [il mondo] col lavorio delle idee deliranti. La formazione di idee deliranti, che noi consideriamo un prodotto patologico, in realtà è uno sforzo verso la guarigione, un processo di ricostruzione”). (Di Brizzi, 1995 : 113)

Da ciò che abbiamo modo di leggere in quest’ultima osservazione di Di Brizzi, possiamo esaminare il personaggio di Eric e collegarlo alla tematica della paranoia. Cosi come Crash, anche Cosmopolis è un film post-politico e post-erotico. Il protagonista fatica ( e deve impegnarsi) a trovare il brivido dell’eros. Inoltre, il  soggetto crede che ogni avvenimento sia in qualche modo relazionato a lui, hai il sospetto di essere l’unico umano ancora non colonizzato ed è convinto di essere l’unico in grado di conoscere il giusto ordine delle cose. Eric Packer è un ragazzino, ricco e potente; chiede consigli su come investire i suoi soldi ma non dà molta importanza a questi. Vive nel suo mondo all’interno della sua limousine mentre fuori la gente di ribella alla società circostante. L’unico momento in cui il protagonista sembra commuoversi davvero è durante la morte di un cantante rapper, ma per tutto il resto del film il personaggio interpretato da Pattinson sembra privo di emozioni e sentimenti. Seguendo ciò che scrive Freud quindi, questa personalità può essere sintomo di uno sforzo verso una guarigione e probabilmente un processo che conduce ad una ricostruzione. Ma il protagonista del romanzo, anche se nel film di Cronenberg ci troviamo davanti ad un finale aperto, inevitabilmente morirà. Quindi forse è proprio questa l’unica via d’uscita prevista da Cronenberg: non di tratta di una resa  nei confronti di un qualcosa di inevitabile e di incontrastabile, proprio come la morte, piuttosto i suoi personaggi sono contraddistinti da un senso di non accettazione, quasi di ribellione:
Nei miei film io mi batto contro i dati biologici dell’esistenza umana. Esprimo il desiderio di cambiarli. Pochissime persone esiterebbero a sopprimere la vecchiaia e la morte, anche se le conseguenze potrebbero essere disastrose. E’ quello che fanno i miei personaggi: hanno una reazione normale, non accettano! Noi siamo nati per non accettare, contrariamente a tutte le altre culture del pianeta. ( Cronenberg,  1992 )

Continua quindi a farsi sentire a gran voce la sua cultura, le sue origini e la sua formazione, ancora  la cultura canadese a giocare un ruolo fondamentale e caratterizzare i suoi personaggi sulla non accettazione, cosi come avviene nel film Crash, dove i protagonisti vogliono riappropriarsi della vita scegliendo come e quando farla finire. Se quindi la minaccia è la morte (che più volte si è sottolineato come possa accostarsi al discorso del virus, della malattia, del contagio, anche paragonandolo all’AIDS) i protagonisti ne usciranno comunque vincitori e saranno loro a decidere come e quando morire nonostante la minaccia che incombe su di loro. La “guarigione”, o meglio la comprensione,  è allora possibile. Possiamo, quindi, interpretare questa come una chiave di lettura che ci conduce ad una sorta di “lieto fine”. Tutto ciò risulta possibile seguendo ciò che Cronenberg ci mostra, scegliendo un diverso punto dal quale leggere l’opera filmica: il punto di vista è quello della malattia che si innesca nel protagonisti dei suoi film. Cosmopolis non vuole essere un film di critica, piuttosto è una rappresentazione di ciò che può avvenire in un imminente futuro e il regista canadese ci chiede di entrare nella limousine del film per osservare ciò che viene narrato, proprio accanto a lui e ad Eric Paker. Il protagonista incarna un guru delle finanze che perde tutto per un calcolo sbagliato, mentre la morte veste i panni del personaggio di Paul Giamatti, Benno Levin.








CONCLUSIONI
Guardia del corpo: “Il presidente è in città”
Eric: “Non ci riguarda, voglio aggiustare il taglio…attraversiamo la città!”
(Dialogo tra Eric Packer e la sua guardia del corpo in Cosmopolis)

Come si è avuto modo di analizzare quindi, il cinema di David Cronenberg risente delle forti influenze che la sua cultura gli ha trasmesso. Il Canada è presente in tutte le sue pellicole e non solo visivamente parlando (fino ai primi anni novanta tutti i suoi film furono girati in Canada e anche gli attori da lui scelti erano canadesi), ma anche sotto un aspetto meno esplicito. Tutto il cinema del regista canadese si basa sul dare una forma visibile alle grandi configurazioni terrifiche dell’inconscio, quindi, di conseguenza, le tematiche da lui trattate sono frutto dei suoi riscontri, delle sue esperienze e talvolta anche delle sue paure. La resistenza al virus, cosi come la resistenza della popolazione canadese nei confronti dell’America è riscontrabile anche in Cosmopolis in maniera più che evidente. All’inizio del film Packer decide di voler aggiustare il taglio di capelli nonostante il presidente degli Stati Uniti si aggiri per le città di New York, a dimostrazione del fatto che il protagonista del film di Cronenberg non si lascia intimidire dalla minaccia (in questo caso metaforizzata dal traffico). Ma questa non è l’unica traccia di cultura canadese che possiamo riscontrare nell’ultima pellicola di Cronenberg. Anche la stessa identità del protagonista, accostandosi a quella dei precedenti personaggi cronenberghiani, risulta narcisista, sicura di sè, eppure nel suo inconscio è decisamente una persona fragile che è ossessionata dal tempo e che sin dai primi minuti del film esprime un desiderio, quello di voler tornare dal suo parrucchiere di fiducia, lo stesso che gli tagliava i capelli quando da bambino si recava lì con suo padre. La ricerca del passato, delle sue radici e della sua identità è proprio il perno centrale di tutto il film. Eric Packer risente di questa sua lacuna, cosi come ne risente il Canada e di conseguenza lo stesso Cronenberg, il quale tratta questa ossessione nella sua intera filmografia e in maniera più esplicita proprio con Cosmopolis. Anche attraverso la sceneggiatura è possibile leggere quanto questo sia trattato. “Tutto nelle nostre vite ci ha portato a questo momento” dice Benno Levin ad Eric, di conseguenza l’unico spiraglio di luce che c’è nel film viene pronunciato dalla bella ma impossibile Elise Shifrin (interpretata da Sarah Godon, anche lei canadese): “distruggere il passato, creare il futuro!”.

BIBLIOGRAFIA

CANOVA Gianni , David Cronenberg, Il castoro cinema, Milano, 2007.
COSTELLO John, Tutti i film di David Cronenberg (trad . di  Barbara De Filippis), Lindau, Torino, 2001.
DE MARINIS Gualtier, « Cartografie. Videodrome, La zona morta », in La bellezza interiore. Il cinema di David Cronenberg, a cura di Michele Canosa, Le mani, Genova, 1995, pp. 50-59.
DERY Mark, Velocità di fuga. Cyberculture di fine millennio, Feltrinelli, Milano, 1997.
GIAIME ALONGE Andrea, « Un cinema senza foglia d’acero? L’identità canadese di David   Cronenberg », in David Cronenberg, Garage. Cinema Autori Visioni, 1997, n° 10, pp. 49-53.
MENARINI Roy, « Il corpo è denaro », in
FADDA, Michele «Atom Egoyan. La retorica dell’assenza », in Cineforum n. 382, marzo, 1999.
MCLUHAN Marshall, Il villaggio Globale. XXI secolo: trasformazioni nella vita e nei media. Trad. ita. Milano, SugarCo, 1992.
PARKER Andrew, Media Spectacles, Marjorie Garber, Jann Matlock (a cura di), Routledge, New York, 1993, p. 220.
DI BRIZZI, Ottavio, « Cartografia Nova. Il pasto nudo », in La bellezza interiore. Il cinema di David Cronenberg, Canosa Michele (a cura di), Recco – Genova, LeMani, 1995, p. 113.
GRÜNBERG Serge, David Cronenberg, Edizioni  Cahiers du cinéma, 1992.


lunedì 11 marzo 2013

IL LATO POSITIVO

di David O. Russell. 
Con Bradley Cooper, Robert De Niro, Jennifer Lawrence, Jacki Weaver, Chris Tucker.
Titolo originale Silver Linings Playbook. 
Commedia - USA 2012  - Durata 117 minuti 

In molti si sono chiesti: com' è possibile che una commedia americana, dalla trama (apparentemente) già rimarcata ennesime volta abbia ottenuto ben otto nomination all'Oscar (il film ha trionfato anche al Toronto Film Festivals 2012 vincendo il premio del pubblico come miglior film), tra le quali quella di miglior film dell'anno?
Effettivamente ammetto di essere entrato in sala ponendomi la stessa domanda e una volta uscito ho avuto quella risposta.
Il lato positivo (Silver Linings Playbook, è il titolo originale) è tutto ciò che il cinema americano ha di positivo: la brillantezza della commedia, quella sublime pazzia che tanto piace agli spettatori di tutto il mondo, l'approccio al romanticismo che non sfocia nel banale, ma piuttosto si delinea lungo un asse che potremmo etichettare come gli "ostacoli vitali".
Pat (Bradley Cooper), un'insegnante di liceo, viene dimesso da una clinica psichiatrica ed è convinto di essere stato in cura solo per qualche mese. Tornato dalla moglie, scoprirà che il suo ricovero è durato diversi anni e lei non vuole più saperene di lui. A questo punto Pat deciderà di diventare l'uomo che sua moglie aveva sempre desiderato che lui fosse per riconquistarla. In questo percorso, si inserirà Tiffany (Jennifer Lawrence fresca di premio Oscar come miglior attrice protagonista), la sua bella e disponibile vicina di casa per aiutarlo, ma anche lei è piena di problemi. Tra i due inevitabilmente nascerà un forte legame. Parallelamente alla loro storia, si affronterà il rapporto figlio/genitori e su questa sponda sarà possibile ammirare uno straordinario Robert De Niro che è semplicemente Robert De Niro. 
David O. Russell torna due anni dopo The Fighter (che già strappò forti applausi) con un'opera brillante, nevrotica e decisamente commovente. Con un pizzico di scaramanzia (accostandoci a De Niro, vogliamo chiamarla fortuna?) ci presenta un film che incarna tutti gli stereotipi dei classici film hollywoodiani: dalla storia d'amore alla scena del ballo (in perfetto stile musical), dall'incompreso protagonista alla risata made in Wilder, dall'intreccio della storia ad un finale che si racchiude in un unico punto dove si intersecano le linee narrative di tutta l'opera.
Passiamo al cast adesso: Bradley Cooper dopo aver passato le sue "notti da leone", incarna
alla perfezione un personaggio bipolare  e danza sullo schermo affiancato da quella che potremmo definire l'ultima nuova diva hollywoodiana: Jennifer Lawrence (l'Oscar è più che meritato). 
La risposta alla domanda iniziale quindi è che l'opera di David O. Russell parte con un pugno forte nello stomaco, come quelli visti nel suo film precedente, per poi proseguire in maniera decisamente più dolce, tralasciando la negatività e evidenziando "il lato positivo" delle cose, della vita e del cinema hollywoodiano. Assolutamente da vedere.

martedì 19 febbraio 2013

NOI SIAMO INFINITO



Titolo originale: The Perks of Being a Wallflower

di Stephen Chbosky
con: Logan Lerman, Emma Watson, Ezra Miller, Mae Whitman, Melanie Lynskey, Dylan McDermott, Paul Rudd, Tom Savini.

Drammatico - Durata 112 minuti
2012 - USA.

Arriva in Italia The Perks of Being a Wallflower, con il titolo tradotto Noi siamo infinito, tratto dal romanzo dello stesso Chbosky.
1991, America. L'intelligente, ma timido e inetto, Charlie (Logan Lerman) osserva il percorso degli eventi dalla sua camera, scrivendo una sorta di diario personale. Gli amici latitano, finché non compaiono la bella Sam (Emma Watson) e il suo fratellastro Patrick (Ezra Miller, probabilmente il migliore tra gli attori). Mentre si recita il Rocky Horror Picture Show e un professore trasmette a Charlie il sogno della scrittura, per il terzetto la missione è trovare la colonna sonora della propria vita (ci sembra di ricordare 500 giorni insieme, non sarà un caso la scelta degli Smiths). Ma come ci si può aspettare, non và tutto liscio: il passato torna a rapire il povero Charlie, che non ha mai superato la morte accidentale della zia. Da qui una serie di eventi si susseguono, portando il giovane protagonista ad una crescita relazionale e alla nascita di nuovi sentimenti mai provati prima.
Il film vince e convince lo spettatore. Sicuramente il punto di forza dell'opera sta nella sceneggiatura, forte e dall'infinità realisticità di una storia, anomala per certi versi, ma che (cosi come sostiene il protagonista) si verifica frequentemente restando nell'ombra. I problemi di Charlie sono gli stessi di tanti adolescenti, amplificati certo dal trauma infantile. Ottima la colonna sonora che accompagna le vicende dei ragazzi; buona la performance dei giovani attori (probabilmente tra i migliori ad Hollywood attualmente) e decisamente convincente l'adattamento di Chbosky che ci regala scene destinate a divenire cult come quella in macchina con David Bowie a garantire adrenalina e colpo di fulmine tra noi e il film. Ciò che colpisce di Noi siamo infinito è la sua orignialità, pur essendo un film sicuramente ispirato ad altri (sembra di vedere Donnie Darko a volte nello sguardo di Charlie, cosi come il già citato 500 giorni insieme). In un tempo dove il ricalco domina la scena hollywoodiana e il mondo sembra non fermarsi mai (esplicitato nella sequenza in auto, ma anche nell'incipit del film con la soggettiva del protagonista) sono film come questo che riportano la consapevolezza che tutto non è ancora stato scritto e girato. Il film ci insegna che il passato è passato, ma ciò che possiamo avere davanti è ancora un incognita, spingendo la nostra percezione a desiderare il nuovo, la sorpresa (come il colpo di scena finale). Sappiamo che un giorno questo film diverrà storia e le immagini diventeranno vecchi fotogrammi, e noi diventeremo il padre o la madre di qualcuno, ma qui, adesso, in questo momento non si tratta di storia, questo sta succedendo, noi siamo qui, e lo stiamo guardando… ed è bellissimo.

domenica 17 febbraio 2013

FLIGHT



Un film di Robert Zemeckis.

Con Denzel Washington, Don Cheadle, Kelly Reilly, John Goodman, Bruce Greenwood.
Drammatico - Durata 138 minuti
USA 2012.

Eccolo di nuovo! Robert Zemeckis torna a girare film con attori in carne e ossa e lo fa alla sua maniera, riportando sul grande schermo tutte le tematiche che hanno fatto di lui un maestro del cinema contemporaneo, capace di contraddistinguersi da tutti gli altri cineasti.
In Flight, infatti, è possibile ritrovare tutto il suo cinema: dal tema del tempo a quello del doppio, dall'esorcizzazione della morte al mito.
Una serie di improvvisi guasti e calamità naturali trasformano un normale volo di linea in un vero incubo. L’audace e coraggioso comandante Whip Whitaker (interpretato da un Denzel Washington in grande spolvero) riesce a evitare la tragedia. Immediatamente acclamato eroe dai superstiti e dalla stampa, l’uomo in realtà potrebbe essere la causa dell’intera sciagura per via del suo stato d'ebrezza prima e durante il volo.
Per il suo diciottesimo lungometraggio Zemeckis torna a lavorare con Don Burgess (direttore della fotografia) e opta per uno straordinario montaggio alternato per la prima parte del film, mettendo in parallelo le vita del protagonista e quella della donna che sarà la sua futura compagna. 
Dunque, da dove cominciare? Ah si, il tanto amato movimento del regista di Chicago, senza il quale i suoi personaggi e le sue storie non prendono vita. Dopo aver scelto una Delorean, una zattera, un treno, ecco adesso l'aereo. Zemeckis ci invita a salire a bordo promettendoci di regalarci un'esperienza straordinaria. Gli spettatori infatti sembrano essere incollati su quelle poltrone e nonostante le turbolenze e consapevoli di andare incontro ad una tragedia, si ha la convinzione di dover atterrare planando neanche fosse il leggero movimento di una piuma, come quella del buon vecchio Forrest Gump. Un arma a doppio taglio quindi e se si parla di doppio come non sottolineare la duplice personalità del protagonista: Whip è un eroe ma allo stesso tempo racchiude tutti i cliché dell'antieroe, alternando momenti di pura saggezza quando si rapporta con la gente al di fuori dal suo guscio dove invece regna l'altro Denzel, l'ubriacone, per intenderci. La maschera indossata dal protagonista è la stessa usata da Jodie Foster in Contact, nascondendo il dolore dentro di se (in quel caso per la perdita del padre, in questo caso per essere stato allontanato dalla sua famiglia). Il mito degli Stones (mentre nella sua prima pellicola toccò ai Beatles) fanno da sottofondo all'entrata in scena di John Goodman, che spiazza lo spettatore portando un tocco di ironia in perfetto stile Coen. Proprio come in tutte le sue pellicole precedenti, anche in Flight, Zemeckis compie un'operazione di esorcizzazione della morte: il suo personaggio non può morire, eppure sembra morto dentro sin dai primissimi minuti del film. Il suo tempo è finito da un pezzo, precisamente da quando i rapporti con la famiglia sono andati degenerando ed è proprio questo il punto centrale di tutta l'opera del regista di Chicago: il tempo. Se Tom Hanks sostiene di non perdere di vista il tempo in Cast Away e poi si ritrova in un non-luogo, dove le ore/giorni non contano a nulla, anche Whip si ritroverà a vivere la sua vita nel vuoto, nel nulla più totale, dove ogni giorno che passerà sarà identico a quello precedente, costretto a vivere in una cella fittizia che lo imprigiona da troppo tempo ormai. Il finale del film, da qualcuno criticato, non poteva essere rappresentato in nessun altro modo. Denzel Whasington tra le sbarre riprenderà a vivere e forse solo allora le sue lancette riprenderanno a muoversi. Magistrale.

martedì 29 gennaio 2013

DJANGO

di Quentin Tarantino
con Jamie Foxx, Christoph Waltz, Leonardo DiCaprio, Kerry Washington, Walton Goggins, Don Johnson, Samuel L. Jackson, Bruce Dern, James Russo, James Remar, Amber Tamblyn, Nichole Galicia, Laura Cayouette, Jonah Hill.
USA 2012 - Durata 165 minuti.

Non è semplice affrontare una critica che riguardi un film di Quentin Tarantino. Ogni sua opera contiene diverse chiavi di lettura. Il percorso di crescita di questo immenso autore lo ha portato oggi a partorire una pellicola lunga 165 minuti, dove all'interno è possibile ritrovare tutta la sua cultura cinematografica. Django è questo: un mix di tutta la sua filmografia associata a continui richiami di opere che hanno costruito un regista in grado di ritagliarsi un posto nell'olimpo degli autori. 
Negli Stati Uniti del Sud, da qualche parte nel Texas, due anni prima della Guerra civile, lo schiavo Django (Jamie Foxx) viene acquistato dal dottor Schulz (un Christoph Waltz straordinario), un dentista tedesco diventato cacciatore di taglie, col patto di liberarlo dopo che insieme avranno catturato i pluriomicidi fratelli Brittle. Assimilando il talento di Schulz, Django diventa un killer infallibile e intanto coltiva il desiderio di ritrovare e liberare sua moglie Broomhilda (Kerry Washington), acquistata come schiava tempo prima dal malvagio Calvin Candie (Leonardo DiCaprio probabilmente il migliore tra tutti gli attori con Samuel L. Jackson).
Come Django assimila dal dottor Schulz, anche Tarantino compie la stessa operazione da altri autori, da Leone a Corbucci, o ancora a Griffith. La sequenza del Ku Klux Klan ricorda quella del film Nascita di una nazione, anche in questo caso rimodellata in chiave ironica e decisamente riuscita (probabilmente la migliore del film). Proprio questo rimandare al passato potrebbe esserci utile a capire cosa c'è dietro Django: un passato che prepotentemente torna nel presente o che forse non è mai passato del tutto. I continui flashback presenti nel film rimandano a qualcosa di già visto, ma questa volta riformulati in chiave tarantiniana, aggiungendo quel tocco che ha contraddistinto il regista di Kill Bill, Le iene, Pulp Fiction, Grindhouse e Bastardi senza gloria. La sequenza di D'artagnan sbranato dai cani rimanda a quella girata dall'amico Rodriguez in Sin City, dove Elijah Wood veniva legato ad un albero per poi essere decapitato. Ancora, la sparatoria splatter finale sembra ricordarci la sequenza di Kill Bill dove si assiste al duello tra Uma Thurman e Lucy Liu. Ma i ricalchi al suo cinema non sono finiti: nel finale del film Jamie Fox viene appeso a testa in giu e uno scagnozzo di Di Caprio lo minaccia con un coltello, telecamera bassa e voilà, dèjà vu di Michael Madsen nel film Le Iene. Degna di nota è tutta la colonna sonora (anche la fotografia), il contrasto tra la musica rap e le immagini western crea un mondo completamente tarantiniano e originale che diviene delizia per gli occhi e per le orecchie.
Dopo Bastardi senza gloria, Tarantino riprende il tema del nazismo e lo immerge in una pentola chiamata western, tralasciando John Wayne e privilegiando Franco Nero (che compare anche nel film nella sequenza del duello tra neri davanti agli occhi del perfido Di Caprio), ma questa volta l'operazione gli riesce fino a un certo punto. Mentre con il precedente film lo spettatore esce dalla sala consapevole di aver appena visto un capolavoro (come lo stesso Brad Pitt sostiene alla fine del film), con Django si ha la sensazione di uscire indubbiamente soddisfatti, ma con il dubbio che qualcosa sia mancato a questi 165 minuti di pellicola. Sicuramente la grandezza di Django sta nell'originalità di un autore che ormai è una garanzia, ideando un filone pulp che solo lui può permettersi di creare. 
Caro Quentin, se prima avevi la nostra curiosità, adesso hai tutta la nostra attenzione.

giovedì 17 gennaio 2013

THE MASTER


di Paul Thomas Anderson
con Joaquin Phoenix, Philip Seymour Hoffman, Amy Adams, Laura Dern, Rami Malek, Jesse Plemons, W. Earl Brown, Kevin O'Connor, Lena Endre, Ambyr Childers






DRAMMATICO - 137 minuti - USA 2012



Freddie (Joaquin Phoenix) è un marinaio, alcolizzato e un talento nel creare distillati alcolici. Una volta  tornato in patria, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, prova a reintegrarsi nella società, in un primo momento come fotografo in un centro commerciale, poi, ancora, come agricoltore, ma in entrambi i casi fallisce i suoi tentativi. Il protagonista si imbarcherà nuovamente, questa volta per errore dovuto al suo stato di ebrezza, per combattere forse il vero antagonista dell'ultima pellicola di Anderson: i demoni di un passato che lo hanno reso il disadattato di oggi, solo, senza casa né famiglia e con l'unica speranza di ritrovare nel Massachusetts l'amata sedicenne Doris. Su questa nave incontra "un'altro lui" chiamato Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman), il quale si presenta dicendo: "Sono uno scrittore, dottore, fisico nucleare, filosofo teoretico, ma soprattutto un uomo". I due personaggi sono molto simili tra loro, entrambi con istinti animaleschi, privi di un vero affetto, simpatizzanti l'uno dell'altro. Lancaster Dodd porta avanti le sue idee, quella che lui ama definire "la causa", la quale si rivelerà una sorta di specchio dell'America stessa: un'idea priva di basi solide e punti di riferimento (si passa con troppa semplicità ad un cambiamento di metodo, da “riesci a ricordare?” a “riesci a immaginare?”). Anche i protagonisti dell'opera andersoniana sembrano rispecchiare il continente americano, privi di un passato glorioso, di una storia, di una figura "materna" (nel film infatti non compaiono scene madri, sarà un caso?). 
C'è chi si aspettava un attacco a Scientology per via della "setta", della "causa" e del personaggio interpretato da Hoffman (che a tratti ricorda il Kane di Welles), il quale accudisce il povero e sbandato Freddie, eppure ci troviamo davanti a molto più di questo. 
Non è semplicemente una critica a Hubbard (il fondatore di Scientology), piuttosto l'opera punta il dito contro un'intera nazione rimasta chiusa in una cella dalla quale non riesce più ad uscire, dove ogni via d'uscita che si presenta appare illusoria e fragile come sabbia. I ricordi divengono sogni/incubi, illusioni e ipotesi (ci siamo già conosciuti in un'altra vita?), forse speranze di un'immaginario troppo distante da raggiungere. Epico il faccia a faccia finale, proprio come avviene ne Il petroliere, tra i due protagonisti, dove Lancaster Dodd invita Freddie a fargli sapere se riuscirà mai ad essere felice senza un vero e proprio punto di riferimento e che se mai dovesse riuscirci, allora sarà il primo caso nella storia. 
Quella di Paul Thomas Anderson sembra quindi, più che un racconto, una vera e propria "tesi" e un invito alla crescita, all'andare avanti verso un futuro dove il passato americano non è più invitato. Capolavoro assoluto.

martedì 15 gennaio 2013

VITA DI PI

di Ang Lee.

Con Suraj  Sharma, Irrfan  Khan,  Tabu,  Rafe  Spall,  Gérard  Depardieu, Adil  Hussain.


Avventura, Drammatico - Durata 127 minuti - USA, 2012.

Tratto dal celebre romanzo di Yann Martel, il pluripremiato regista Ang Lee riabbraccia la natia Taiwan. L'autore decide di sperimentare per la prima volta il 3D, regalandoci inquadrature straordinarie tra oceano e cielo, tra la terra e l'altrove. 
Il progetto di Vita di Pi esiste già da circa dieci anni e solo oggi approda nelle sale di tutto il mondo. L'opera narra le vicende di  Pi Patel, figlio del guardiano dello zoo di Pondicherry, in India, che con la famiglia si sta trasferendo in Canada, a bordo di una nave da carico. Superstite di un tragico naufragio, Pi si ritrova alla deriva nell'Oceano Pacifico, su una scialuppa di salvataggio, in compagnia di una enorme tigre del Bengala chiamata Richard Parker per errore. Il romanzo, cosi come il film, fortunatamente non trasforma il feroce felino nel miglior amico dell'uomo come spesso accade in tante opere cinematografiche, ma lascia l'enorme difficoltà di affrontare un viaggio nel bel mezzo dell'Oceano Pacifico in compagnia di una minaccia costante come una tigre del Bengala. Più volte menzionato nel film è il tema della religione, o meglio delle religioni, le quali vengono tutte prese in considerazione e coltivate con amore da parte del protagonista Pi. Egli infatti non crede in un unico Dio, ma amplia le sue conoscenze religiose approfondendone molteplici tipi. L'Expedition di Pi viene da lui stesso raccontata ad uno scrittore, il quale ne rimarrà affascinato e incredulo. 
Non mancano le tantissime citazioni cinematografiche: sembra di ripercorrere le avventure di Tom Hanks in Cast Away (dove il protagonista stringe una forte amicizia con una palla, mentre nel caso di Pi si tratta di una tigre, forse l'unica a permettergli di trovare le forze per affrontare questo lunghissimo viaggio), l'inquadratura su sfondo bianco nel finale del film ricorda a tratti l'Alex di Arancia meccanica per alcuni risvolti che il film prende nel proseguo della trama. 
Degni di nota sono i raccordi presenti nell'opera, il montaggio merita di essere menzionato, cosi come gli straordinari effetti visivi che fanno di Vita di Pi un film sublime anche da un punto di vista prettamente visivo. 
Il regista taiwanese porta quindi sul grande schermo un'opera che si prende le sue undici nomination all'Oscar di quest'anno (tra queste miglior film, regia, sceneggiatura non originale) e disegna una parabola ascendente sulla vita e sulla spiritualità, natura e cultura, fede e scienza, credere o non credere. Infondo è questo l'interrogativo di Vita di Pi: bisogna decidere da che parte stare, schierarsi verso uno dei due fronti, se la realtà o l'irrazionalità, il possibile o l'impossibile. Tirando le somme anche questo stesso film sembrava non dover più prender vita, eppure eccolo qui, pronto a lasciarci a bocca aperta e attraverso le nostre bocche sarà possibile percepire questo straordinario universo cinematografico creato da uno dei maestri contemporanei del cinema. Basta semplicemente crederci.